
Pugni nello stomaco, lacrime, dolore ma niente pietismo perché le “Donne di Calabria” dalle ceneri della sofferenza risorgono più coraggiose e più forti, pronte a combattere per i diritti negati ai loro figli e a tutti i bambini.
Un messaggio che parte dal Motorshow 2mari: donne coraggiose che hanno dato una marcia in più e che con la loro vita e la loro esperienza possono e vogliono essere un esempio per tutte quelle donne che di fronte agli ostacoli della vita pensano di non farcela, di non essere abbastanza.
L’esempio è il primo vero insegnamento. Ad aprire le danze Angela Villani da sola e contro tutti. Non pensa solo a suo figlio. «Quando una mamma comprende che il suo bimbo vive una realtà diversa è l’inizio di un percorso complicato e, dopo aver affrontato il momento iniziale di dolore ho capito che dovevo fare qualcosa per dire a tutti che i nostri figli hanno voce attraverso noi. Non è giusto che le famiglie che non hanno disponibilità economica non possono fare le terapie comportamentali e migliorare la qualità di vita del proprio figlio». Da qui l’appello ai commissari Asp:«il loro dovere è dare una risposta ai nostri bambini. Io non mi arrendo». Come Angela di mamme pronte a tutto per tutelare la salute e i diritti dei propri figli ne sono intervenute tante ma a dare una prima risposta istituzionale è stata Giusy Massara vicepresidente della Commissione Pari Opportunità dell’area metropolitana.
«Ringrazio gli organizzatori per aver inserito questo tema che celebra la parte migliore della Calabria quella laboriosa. Siamo delle corritrici. La Cpo partecipa ascoltando le difficoltà di donne guerriere che nella dignità, compostezza e fierezza affrontano i disagi. Sentiamo come donne in primis i vostri disagi. Vediamo la forma di invisibilità perché mancano dal dibattito progetti per queste donne».
Il secondo schiaffo pronto a riportare alla dura realtà che sono costrette a vivere le donne di Calabria viene da Stefania Gurnari, una donna che non ha abbassato lo sguardo neanche di fronte a chi ha attentato alla vita di suo figlio senza chiedere vendetta ma giustizia.
«IL 6 giugno di 11 anni fa mio figlio è stato colpito da un proiettile vagante e ancora oggi porta i segni. C’è voluto molto coraggio per dire no alla mafia e chiedere giustizia in tribunale. Nonostante tutto non sono andata via da Melito Porto Salvo perché sono convinta che la Calabria non è abitata solo da gente mafiosa. Sono i mafiosi a dover andare via. E col nostro coraggio li dobbiamo mandare dietro le sbarre. Ho combattuto a 360 gradi. In tribunale e in ospedale. Sono sempre convinta che il cambiamento di questi mafiosi passa dalle donne, madri e mogli. I figli dei mafiosi non vanno isolati».
Una storia dietro l’altra, tocca a Sabina Beretta raccontare una vita che non le ha risparmiato alcun dolore, la disabilità della figlia, la morte straziante del marito e, come se non fosse abbastanza, il cancro.
«Dopo aver affrontato la prima prova dopo aver scoperto la disabilità di Sasha ho dovuto affrontare la morte di mio marito senza riuscire ad elaborare il lutto. Io non posso fare trasparire la mia sofferenza, devo farlo per Sasha. Ma quello per cui oggi combatto è perché i nostri ragazzi dai 18 anni sono degli invisibili. Ci sono carenze oggettive».